Lungo la via del sake

La tradizionale bevanda fermentata di riso, come insegna l’ente semi-governativo Japan External Trade Organization, oggi non si serve solo calda a fine pasto ma, come fanno i giapponesi, anche fredda, così da accompagnarsi a ingredienti dal sapore mediterraneo

Jenny Maggioni

Di solito viene offerto a fine pasto nei ristoranti giapponesi (o presunti tali) e spesso rifiutato perché “troppo forte”. Sul sake ci sono tanti miti da sfatare che si legano a un altro grande pregiudizio e cioè che la cultura alimentare giapponese (washoku) “sia solo sushi” e non quel mix di essenzialità, salute ed estetica che gli è valso l’entrata nel 2013 nel Patrimonio culturale immateriale dell’Unesco. Poi di sake non ce n’è solo uno, perché, come il vino, racchiude in sé una storia millenaria, fatta di riti e tradizioni, infarcite di religione e arte.

sake2

Derivato da una complessa fusione tra riso e acqua, oggi il sake è prodotto in 1.300 stabilimenti, in cui si ottiene grazie a un processo che si sviluppa in diversi mesi: “Dal riso raffinato, cotto a vapore e lasciato fermentare per circa 2-3 settimane, si ottiene un liquido che viene pastorizzato e lasciato nuovamente riposare fino al momento in cui verrà imbottigliato -spiega Marco Massarotto, presidente dell’associazione culturale La via del sake- A seconda del grado di raffinazione del riso e della quantità di acqua se ne ottengono vari tipi”.

sake1

E se sono diversi, diversi saranno le modalità di degustazione e gli abbinamenti: “Molti pensano che il sake lo si debba bere caldo a fine pasto -continua Massarotto- Ma in Giappone lo sorseggiano anche fresco a tutto pasto”. Già, perché abbinare il sake, oltre che ai piatti nipponici, alla cucina italiana è possibile. Basta saper scegliere, come insegna l’ente semi-governativo Jetro (Japan External Trade Organization). Così, l’elegante e morbido Yamato Shizuku Junmai Ginjou di Akita Seishu, per il suo gusto asciutto e croccante che sgrassa il palato, si sposa a insalate di mare, pesce fresco e omelette; l’Hatuhinode Ginjo di Haneda Shuzo, prodotto dal riso Iwai della zona di Kyoto, per il suo sapore profondo, è ideale con piatti dal gusto naturale come sashimi di pesce palla, rombo e orata, carpacci, tartare e porcini; l’Iwate no Jizake di Suisen Shuzo, pulisce la bocca e accompagna i formaggi molli e persino la focaccia genovese; ancora più versatile il Munemasa di Munemasa Shuzo, preparato con il riso della prefettura di Saga, che va bene con qualsiasi ricetta. Per gli amanti del sushi, è perfetto il Sasaya Mozaemonn di Hakuryu, secco ed elegante; ma se l’intento è sposare il sakè con i sapori mediterranei, come mozzarella e pomodoro, meglio il Suzukagawa Junmai Daiginjo di Shimizu Seizaburo. Quando il Giappone incontra la Francia nasce invece il Junmai Daiginjo Special di Masuda, affinato in barrique bordolesi. E per stupire con una delicata nota di colore c’è anche il Kozaemon Junmai Umeshu di Nakashima, realizzato con la pregiata prugna Ume.

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*


Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.