N°141 Aprile Maggio

3 Food&Beverage |aprile-maggio 2022 EDITORIALE Barbara Amati amati@foodandbev.it i L’ottimismo della volontà In un qualsiasi weekend di marzo le Cinque Terre brulicavano di stranieri. In montagna l’effetto Covid non è ancora passato e si fa fatica a trovare una casa libera. Napoli, anni fa non considerata fra le città d’arte, a Pasqua ha visto arrivare una notevole quantità di turisti. E anche la Liguria, nonostante lo stato delle autostrade, ha visto il risveglio dei suoi borghi dopo la pausa invernale con weekend affollati di persone. Piccoli flash che non vogliono spargere ottimismo a tutti i costi, ma solo per dire che, accanto alla drammaticità della guerra, al caro bollette, al personale che non si trova e al Covid che è sempre lì, qualcosa di buono esiste. Perché se c’è una cosa che questi anni difficili non sono riusciti a scalfire è la voglia degli italiani di andare fuori a mangiare. Lo certifica anche il rapporto Censis realizzato per conto di Italgrob dove si racconta che il 71,1% della popolazione afferma che tornerà con uguale o maggiore frequenza a fare colazione fuori casa nei bar o nelle pasticcerie, il 68,9% tornerà a sedersi al ristorante o in trattoria, il 65,9% tornerà a consumare aperitivi in wine bar, enoteche o brasserie. E il 21,7% (il 40,9% dei giovani) è intenzionato a frequentare di più i luoghi della convivialità. Si diceva che la pandemia ci avrebbe profondamente cambiato. Un po’ è vero, molti di noi non sono più gli stessi del 2019, ma andare a mangiare fuori piace ancora tantissimo. Ricordo un’intervista recente a una ristoratrice che raccontava che anche con la pioggia e il brutto tempo la gente voleva mangiare all’aperto. Un po’ è per la paura degli ambienti chiusi e un po’ perché abbiamo imparato a stare fuori anche se non batte il sole e perché l’aria fresca l’apprezziamo più di prima. Ma il bicchiere non è solo mezzo pieno. Bisogna ricordare il grido di dolore della Fipe con i 56 miliardi persi negli ultimi due anni e le 45 mila imprese che non ce l’hanno fatta e hanno dovuto chiudere i battenti. L’aumento dei prezzi delle materie prime si riflette sui conti delle aziende che non hanno poi tutta questa possibilità di ribaltare sul cliente la crescita dei costi. La marginalità (un eufemismo…) ne soffre e per questo c’è bisogno di avere una buona massa critica di clientela, far ruotare maggiormente i tavoli, sfruttare il delivery e cercare altre possibilità per sostenere il business. C’è voglia di ripresa, di consumi fuori casa e, non a caso, secondo l’Istat, le vendite food e vini nella ristorazione sono cresciute, nel 2021 rispetto al 2020, del 22,3%. Certo, la flessione rispetto alla fase pre-pandemica è rilevante, con un -22,4% fatto registrare nel 2021 rispetto al 2019. Se nel 2019 le vendite di food e vini nei ristoranti si aggiravano intorno agli 85 miliardi di euro, nel 2021 si sono superati i 63 miliardi. Netto calo, quindi, ma con una decisa impennata nei confronti del 2020 che non superava i 54 miliardi. E la ristorazione rappresenta il canale di importanza strategica soprattutto per i fine wine, e non solo da un punto di vista del business, ma anche da quello culturale. Raccontare, spiegare, fare assaggiare anche bottiglie particolari, è il ruolo del ristoratore, così come lo è dei produttori di vino. L’abbiamo ben visto a Vinitaly che ha appena chiuso i battenti a Verona decretando il successo di una manifestazione che, dopo due edizioni mancate causa pandemia, ha potuto finalmente svolgersi. Un Vinitaly diverso, meno affollato, anche per la “stretta” sugli ingressi dei consumatori dell’ente fieristico che ha puntato maggiormente su operatori e buyer. Dove l’atmosfera era positiva nonostante l’incremento dei costi e la difficoltà di reperire alcune materie prime, dalle bottiglie agli imballaggi. Chiamiamolo ottimismo della volontà. I segnali di ripresa non mancano, i turisti tornano e gli italiani vogliono andare al ristorante. Ma le difficoltà sono tante. Personale, bollette e il Covid che non se ne va. Ci vuole forza

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