N°127 Gennaio Febbraio

3 Food&Beverage | gennaio-febbraio 2020 EDITORIALE Barbara Amati amati@foodandbev.it i Una storia all’italiana Grom chiude altre gelaterie e si avvia verso un nuovo modello di business. La catena, dal 2015 in mano a Unilever, si allontana sempre di più dall’idea iniziale di Federico Grom, analista finanziario, e Guido Martinetti, enologo, che la fondarono a Torino nel 2003. È la fine di una storia che a noi sembra molto italiana e che parte da una buona idea che univa un marketing intelligente a un prodotto di qualità. Lasciamo perdere oggi l’equivoco fra gelato artigianale e “gelato come una volta”, ma con la loro proposta i due avevano trovato spazio in un mercato del gelato che non sembrava offrire ulteriori possibilità di sviluppo. La ricetta era un mix di eccellente comunicazione, punti vendita curati, solo prodotti di stagione da presidi slow-food, utilizzo di addensanti naturali, attenzione all’eco-sostenibilità. E l’entusiasmo dei due giovani ideatori era palpabile quando parlavano della loro creatura nata da una felice intuizione e da un investimento di 65 mila euro. Ed ecco le file fuori dai negozi, anche perché i gelati venivano serviti in un modo particolare che escludeva la velocità. E in più la produzione era centralizzata alle porte di Torino. Vengono aperti decine di punti vendita anche all’estero, ma la crescita a un certo punto rallenta. Si parla di 25 milioni di fatturato nel 2014 rispetto ai 23,5 dell’anno precedente. Numeri rispettabili, ma c’erano anche le perdite, un milione nel 2013 e due milioni nel 2014. La startup era partita bene, ma la gestione della crescita era un problema. In questa situazione Grom e Martinotti decisero di vendere a Unilever. È questa la sindrome italiana. Abbiamo prodotti fenomenali, come la pizza, ad esempio, ma non siamo capaci di farli diventare protagonisti di brand mondiali. L’ingegnerizzazione non è nel nostro Dna, coltiviamo l’artigianato che è una cosa bellissima, ma deve anche essere affiancato da imprese più grandi e strutturate, perché se fino a qualche anno fa ci siamo cullati nel “piccolo è bello” oggi non è più così. I due ex ragazzi ci hanno provato, ma non sono riusciti a diventare grandi con le spalle forti. D’altronde la storia della pizza è simile. Nessuno è partito dall’Italia per imporre il marchio di una pizza italiana nel mondo. Abbiamo aperto migliaia di pizzerie ovunque che sono rimaste tali, non sono diventate catene, brand, fatturati importanti. La pizza nel mondo si traduce con marchi comeDomino’s e a New York, come raccontava tempo fa Federico Rampini su Repubblica, la pizza è considerata un piatto locale. Non senza qualche ragione, visto che con le loro varianti si sono allontanati anni luce dalla proposta originale. Il problema non è tanto legale, nel senso di difendere il food italiano dall’Italian sound, ma di non essere stati capaci nel corso degli anni di costruire un brand mondiale per pizza o pasta che diventasse il sinonimo di quel piatto nel mondo. Perché quando l’impresa deve diventare grande ci perdiamo, non siamo più artigiani e non siamo neanche grandi imprenditori. Spontini, la nota pizzeria al taglio milanese, ci ha messo anni e anni per diventare una catena e nel 2018 ha realizzato 27 milioni di fatturato con una trentina di locali, cinque dei quali all’estero. Gli obiettivi sono ambiziosi, la società appare ben gestita, ma i brand mondiali sono un’altra cosa. E la faccenda non riguarda solo il food. Nella Grande distribuzione non mancano i campioni nazionali, ma sono, appunto, nazionali, si dividono il mercato italiano e il mondo è degli altri. Altre storie molto italiane. La gelateria Grom acquistata da Unilever evolve il modello di business. Storia di una buona idea che sconta i limiti di molte altre vicende imprenditoriali di questo Paese

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